Treviso - Corfu - 1997 di Fabio Miani

Nel ’97 il rock era ancora in qualche modo protagonista. Sulla scia del grunge nascevano nuove interessanti realtà. John Fogerty era ormai ritornato in piena attività, Bruce Springsteen aveva messo in chiaro parecchie cose con “The ghost of Tom Joad”, John Mellencamp e Tom Petty passavano su un’antica MTV che continuava con i suoi Unplugged, gli U2 voltavano pagina con la sperimentazione elettronica, i Ramones si erano sciolti da poco. Dalle nostre parti i Litfiba spaccavano il mezzo milione di copie vendute con “Mondi sommersi” e mentre i veri fans di Lucio Battisti pativano l’illusoria attesa di una sua nuova follia, Fabrizio de Andrè portava in tour “Anime Salve”.
Io a marzo ero andato a vederlo al Palaverde di Villorba con la mia ex.
La mia Fender Telecaster aveva due anni, pochi graffi, e già decine di date macinate nei locali della zona.

Verso la metà dell’estate il mio amico Breeze mi disse che di lì a poco sarebbe andato quindici giorni in Grecia, nell’isola di Corfù, con un gruppo di amici di Vicenza e mi chiese se volevo unirmi alla compagnia.
“Ce n’è di figa? ” gli chiesi. Ce n’era. Così decisi che sarei andato con loro.
Qualche giorno dopo mi scoppiò una devastante varicella. Me l’aveva appiccicata quel marmocchio di mio fratello, all’epoca 4 anni scarsi ed unico a riuscirci: prima d’ora mai presa una malattia infettiva.
Fu lunga e dolorosa. Al terzo stadio, diagnosticò serio il medico.
Quando mi ripresi il Breeze e i suoi amici di Vicenza erano già partiti, ma il vecchio cammello mi aveva promesso che di lì a qualche giorno si sarebbe fatto sentire da Corfù.
“Dai ripigliati Màlboro” disse fiducioso “ti chiamo prima del fine settimana che magari ci raggiungi”.
Giorni dopo ero coperto di nuove piccole cicatrici, e le croste cominciavano a cadere. Era tarda mattinata e stavo facendo colazione in casa da solo. Squillò il telefono. Mi alzai e andai a rispondere masticando l’ultimo biscotto.
“Pronto?” farfugliai sputacchiando.
“Malboro sei tu?” la voce del Breeze era distante ma comprensibile.
“Cazzo, mi hai chiamato sul serio!” diedi un colpo di tosse. Sembravo un vecchio rincoglionito.
“Allora vieni?”
Dovevamo stare veloci: chissà quanto stavano spendendo per quella telefonata. Non ce ne sarebbe stata un’altra.
“Spiegami al volo come arrivare.”
“Prendi la nave da Trieste. Arriverai ad Igoumenitsa, un porto al confine con l’Albania. Lì c’è un traghetto che più o meno ogni giorno fa avanti e indietro da Corfù. Di solito arriva qui intorno alle sei del pomeriggio.”
“Ok, ricevuto. Mi servono un paio di giorni per organizzarmi. Facciamo che arrivo martedì, e poi domenica torno in Italia insieme voi.”
“Ottimo vecchia canaglia! Allora ti aspettiamo al porto di Corfù, martedì pomeriggio intorno alle sei. C’è qui anche Giulio, se ce la fai passa da sua mamma, che ti deve dare d… ”
Caduta la linea, fine della chiamata. Era sufficiente.
Scrissi tutto sul primo pezzo di carta che trovai, per non dimenticare i dettagli. Avevo tre giorni per organizzarmi. Di internet non avevo mai sentito parlare, e vedevo il bancomat come un’eventualità da futuro remoto.
Mi servivano almeno i soldi per la nave, per il resto avevo ancora qualche spicciolo dai concerti.

A pranzo mia mamma non c’era. Nella flemmatica luce del primo pomeriggio, seduti al tavolo apparecchiato in uno stile sbilanciato ed estremamente minimal (due piatti di plastica, due forchette, un solo bicchiere, tovaglioli di carta - tutto il pacco aperto - un paio di bottiglie, pezzi di pane), io e mio padre sgranocchiavamo qualche avanzo preso dal frigo e riscaldato al microonde. Tipico nostro. Attesi il momento buono: arrivò dopo che avevo premurosamente sparecchiato (di solito lo faceva sempre lui).
“Senti papà, ma dopo sta legnata non mi farebbe bene un po’ di mare?”
“Beh, penso proprio di si!”
Bingo.
Quello stesso pomeriggio passai da mia zia, che aveva la sua agenzia di viaggi in centro città e conosceva tutti gli orari di tutti i mezzi di trasporto del globo. Ne uscii con il biglietto per la nave. Allungai dalla mamma di Giulio che mi affidò una busta con sessantacinquemila lire. Giulio, che era rimasto al verde, l’aveva chiamata con gli ultimi spiccioli.

Lunedì mattina salivo sul treno con il mio solito zaino. Pochi ricambi, qualche fumetto, walkman e cassette (me n’ero registrata una ad hoc con una manciata di canzoni americane), cinquantamila lire miei, più la busta con i sessantacinque di Giulio.
Era nuvoloso, però man mano che il treno si avvicinava a Trieste si fece più sereno. Verso la fine del viaggio il mare spuntò come un gigante, vivo e impercettibilmente mobile, sotto un cielo di smalto e zucchero filato.
Da tempo immemorabile non passavo per un porto turistico, forse da quand’ero bambino. Quando vidi la nave mi parve talmente grande che quasi mi mancò il fiato.
Mi ci abituai in fretta. Mancava poco all’imbarco.
Non ne sapevo un cazzo di come fare, e di dove andare. Chiesi qua e là con la mia faccia ancora un po’ incrostata, muovendomi tra ponti mobili, viaggiatori stranieri che trascinavano grosse valige, funzionari portuali che gesticolavano, personale addetto della compagnia navale che sfogliava cartellette colorate.
L’enorme bocca del bastimento inghiottiva file di automobili.
Alla fine riuscii a salire dalla parte giusta e poco dopo trovai il mio posto, in uno stanzone con file di sedili, un po’ come in aereo. Posai la roba e andai sul ponte.
C’erano tre fichette che giocavano a riconoscere la propria casa da lassù. Due su tre erano degne di nota. Attaccai bottone: anche loro erano dirette a Corfù. Il cielo intanto si era di nuovo coperto e tirava un venticello fresco e salmastro. Una di loro andò a prendersi qualcosa per coprirsi.
Le altre due già malignavano contro l’amica, che chiccazzo ce l’ha fatto fare di portarcela dietro, ma lo sai che cosa mi ha detto prima mentre eri a fare i biglietti. Intravidi o immaginai una futura lite risolutiva a circa metà della loro vacanza, ma per ora la gioia del mare e dell’estate aveva ancora il controllo sull’equilibrio dell’improbabile trio.
Girando per la nave conobbi altri ragazzi un po’ più vecchi di me. C’era una biondina ossigenata, un po’ gracilina ma davvero notevole, con un marcatissimo accento triestino e due splendidi occhi azzurro chiaro. Aveva il fidanzato e l’aria da innamorata. Peccato. La sera qualcuno portò sul ponte una chitarra classica da due soldi, recuperata da chissà dove. Non era di nessuno di loro. Chiesero se qualcuno sapeva suonare.
“Dai qua” dissi sorridente, mentre qualcuno si accendeva una sigaretta.
Poi tutti cantarono. Tutti in quel momento pensavano solo a cantare sul ponte della nave, e sul tappeto sonoro della sua grande scia.
I delfini erano di sotto al buio, nell’acqua. Di giorno se ne vedevano un botto.
La salsedine un po’ mi fregò la voce. O forse avevo solo lasciato un po’ di voce al mare.
Quando fu notte fonda io e un paio di ragazzi esplorammo la nave. Volevo salire sul ciglio della prua e quasi ci arrivai, avanzando tra ombre blu. Alla fine tornammo nel salone davanti al ponte dove tutti si erano buttati sui loro teli, a dormicchiare, a chiacchierare, a fumare. Nessuno aveva prenotato una cuccetta o robe del genere. Tutti con il solo biglietto per il ponte, a parte me che avevo preso il sedile.
Due delle tre fichette erano lì. L’altra boh… Biondina Trieste stava invece abbarbicata al suo tipo, che prima non aveva cantato male. Nello stanzone dei sedili, la mia roba c’era ancora tutta. Presi un asciugamano dallo zaino, per usarlo come cuscino e mi diressi verso le due fichette. Mi sedetti, raccontai due minchiate, poi dormii in mezzo a loro e con loro in mezzo a tutti gli altri.
Il giorno dopo al momento dell’arrivo tutti erano sparsi per la nave affollatissima, e durante lo sbarco ci si perse di vista. Intravidi solo Fichetta Uno e Fichetta Due impegnate finalmente a litigare seriamente con Fichetta Tre. Mi defilai, pensando che non sapevo nemmeno i loro nomi. O forse me li avevano detti, e non li ricordavo già più.
A Igoumenitsa, passate le quattro del pomeriggio di martedì, cambiai in dracme un po’ dei miei soldi e comprai il biglietto per il traghettino. Il traghettino era in ritardo. C’era un certo numero di vacanzieri italiani che aspettavano, come me. Farfugliavano di abituali ritardi, e di orari inaffidabili.
Immaginai il Breeze che dopo avermi aspettato al porto per più di un’ora, ritornava dai suoi amici di Vicenza in tutta tranquillità, dando per scontato che avessi comprensibilmente deciso di rimanermene a Treviso. Ma ‘sticazzi. Corfù sarà grande sì e no come il comune di Villorba, pensai. In qualche modo li avrei trovati. Ero sereno. Se mi fossi perso, qualche idea mi sarebbe venuta. Magari mi sarei imbarcato su una bananiera per i Caraibi, e me ne sarei rimasto laggiù per un po’, a macinare canna da zucchero e ad assaggiare del vero rum.
Il traghettino partì alle sei passate. Arrivato al porto di Corfù, nessuno mi stava aspettando.
Era l’ora dell’oro. Quella poco prima del tramonto, dove la luce si abbassa un po’ e s’indora tutto quanto. La mia preferita. Ero in pace col mondo.
Sotto a qualche nuvola lunga e leggera il traghetto ritardario faceva ritorno a Igoumenitsa, mentre i turisti al porto di Corfù si dileguavano rapidamente per raggiungere i propri alberghi. Il porto era piccolo, ci gironzolai per una mezz’oretta, poi m’incamminai in direzione dell’entroterra. Poco prima di passare oltre la palazzina della capitaneria di porto cominciai a scorgere il saliscendi dell’unica strada che usciva da quel luogo e si srotolava verso il nulla sparendo dietro ad un sterrato collinoso e rossastro.
Il Breeze giunse da lì. Era in sella ad uno scooter rosso e inchiodò davanti a me. Aveva una mano fasciata. Dietro di lui giungeva Giulio in sella ad un altro scooter con cui, non tardai ad indovinare, aveva già condiviso almeno un paio di ruzzoloni.
“Ah! …a quanto pare il Màlboro è arrivato!”
Il suo timbro di voce era tornato vero e ricco di quelle frequenze basse che il telefono tagliava.
“Hey Brezza! …avevi dei dubbi vecchio bastardo?”
“Ah ah ah! Salta su satanasso c’è una tazza di vino greco che ti aspetta! ”
“Ma si può salire in due?”
“Eh sì vecchio, qua si può”.
Non sapevo più che ore fossero.
Il mio amico Breeze probabilmente non l’ha saputo mai.
La strada si inoltrava nell’isola, e noi ci correvamo sopra.
Verso un nuovo mare.

 

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