Una storia di Fabio Miani

Arrivarono le vacanze estive. Avevo salvato l’anno scolastico per un pelo e i cellulari erano roba per pochissimi. Tanti nemmeno sapevano cosa fossero, io ero tra quelli. Avevo uno scooter, un cinquantino mono marcia bianco e viola, scattante e ancora messo bene, che spinto a manetta toccava gli ottanta all’ora. Lo stavo osservando seduto sotto al porticato del giardino di casa, poco dopo le otto di un mattino particolarmente caldo. Raccontava mia madre che negli anni ’70 mio padre era andato a trovarla in Vespa, su in Asiago. Mia madre è di Asiago. Io da bambino ci avevo passato parecchie estati. Dai nonni, e dalle mie due zie. Decisi di andarci quel mattino. Non mi sembrava distante. C’ero sempre andato in macchina con i miei e fino a Bassano del Grappa mi ricordavo approssimativamente il percorso. Dopodichè confidavo nella segnaletica. Non è difficile, pensai. Non lo fu, in effetti.


Però c’era un bel pezzo di strada, oltre trenta chilometri, che saliva ripido a suon di tornanti sul costone delle montagne. Non ero tanto sicuro che lo scooter biancoviola potesse reggere, ‘che mica aveva le marce di una Vespa 125. Calcolai che il traffico degli anni ‘90, rispetto a quello dei ’70, era all’incirca il doppio (cioè la metà di quello di adesso) ma me ne sbattevo i coglioni, del traffico, del tempo e della cilindrata di Biancoviola Lo Scooter. Sorrisi al mattino e tornai in camera mia.
Uscii così com’ero in ciabatte, pantaloncini e canottiera, più lo zaino di scuola, nel quale avevo messo i jeans con la grande “U” verde di spugna cucita sulla tasca posteriore e gli strappi fatti apposta da me (mio padre non voleva che li mettessi, non gli piacevano gli strappi sui jeans), i mocassini di pelle, qualche altra cianfrusaglia.
Contai i soldi nel portafoglio: poco meno di ventimila lire. Potevano bastare.
Mia madre puliva la cucina. Le dissi “mamma vado a fare un giro” e salii su Biancoviola. Andai a cambiarmi i vestiti nell’aperta campagna dietro il cimitero di Fontane, in una capanna che avevo costruito con un mio amico una mattina in cui, dopo che avevamo bruciato a scuola, s’era messo a piovere.
Uscii dalla capanna in jeans U-strappatiapposta, mocassini indiani, e canottiera bianca. Il casco non serviva: all’epoca, non appena eri maggiorenne, non era più obbligatorio. Io lo ero da poco.
A Montebelluna mi resi conto che il motore era DAVVERO caldo. Forse avevo tirato troppo, ero sempre a manetta. Mi fermai a fare colazione in un baretto. Duemila lire o giù di lì. Poi pieno di benzina. Settemila e rotti. Bene. A Bassano per passar via il centro e prendere la via giusta, bisognava fare tutto un giro di sensi unici e merdate del genere. Mentre cercavo di raccapezzarmi imboccai per sbaglio un contromano, scatenando un infuriato coro di clacson. Il centro era comunque alle mie spalle, potevo buttarmi sulle salite.
Biancoviola cominciò a faticare sul serio. Andava piano anche se ero a manetta. Però andava. Decisi per un paio di soste. Passando su un tornante riconobbi una vecchia scorciatoia che facevo sempre con i miei. Se ben ricordavo, mi avrebbe permesso di evitare un po’ di tornanti. All’imbocco c’era un bellissimo costone d’erba pochi metri dopo un minuscolo laghetto. Mi fermai mezz’oretta steso al sole su quell’erba la cui temperatura cominciava già a rinfrescarsi per l’altitudine.
Pensai che sarebbe stato figo vivere così per sempre: steso sull’erba fresca sotto il sole ancora dolce del mattino, aspettando che Biancoviola si raffreddasse sul ciglio della strada. Appena cominciai ad avere caldo ripartii lungo la scorciatoia. L’ultima parte era ripidissima. Biancoviola protestava, avevo quasi deciso di scendere e spingerlo a mano per un po’, come quelle nonnine che vanno in bici al mercato e appendono le loro borse al manubrio mentre si fermano a chiacchierare, ma alla fine il vecchio bastardo arrivò sibilante e su di giri in cima alla stradina, e da lì riuscì a proseguire su salite più alla sua portata. Se non ce l’avesse fatta e fosse scoppiato, pensai, sarei tornato giù in pianura a motore spento sfruttando le discese, e poi sa il cazzo. La scorciatoia c’è ancora.
Anche l’aria era un po’ più fresca adesso. Piacevole. Altra piccola sosta dove cominciavano i boschi, all’inizio dell’altopiano sul piazzale di una baita, con dietro pezzi di bosco che circondavano impianti sciistici dormienti, in mezzo a spruzzate di fiorellini gialli. Di lì in poi era più facile. Quattro, forse cinque chilometri di altopiano e Biancoviola imboccò la contrada Costa.
Mia zia sbatteva la scopa fuori dall’uscio di casa. Quando mi riconobbe vedendomi arrivare, impallidì.
“Sei venuto qua con quel motorino?!” Esclamò in un forte dialetto vicentino.
“Eh sì zia!, come stai?” risposi sorridendo, in uno scanzonato dialetto trevigiano.
“Oh signore, tu sei pazzo! Tua mamma lo sa?”.
“No zia!” il mio sorriso si allargò. Mia zia corse al telefono e chiamò mia madre.
Giungeva in quel momento la nonna dalle vecchie scale in legno. Capì al volo, sgranò gli occhi e partì. Era troppo bella quando si incazzava, mia nonna. Mi faceva ridere da pazzi. Il suo repertorio di insulti, era davvero impareggiabile. Mia nonna c’è ancora.
Parlai al telefono con mia madre incazzata, ‘che aveva preparato il pranzo giù a Treviso.
Poi arrivò mio nonno, che ti guardava come il texano dagli occhi di ghiaccio. Era un figo e io avrei voluto essere come lui. Lui non c’è più.
Mi fermai ad Asiago un paio di giorni, forse tre. Mangiai alla grande e dormii ancor meglio. Andai giù al bar con mio nonno, stetti un po’ con le mie due zie che facevano a gara a chi mi faceva da mangiare di più, e mi divertii a fare il possibile per farmi insultare da mia nonna. Una delle mie zie non c’è più.
Non avevo vestiti di ricambio. Sfruttai i pantaloni corti e le ciabatte, nello zaino.
Non avevo un orologio.
Tutto quadra, pensai.
E tutto quadrava perfettamente.

 

 

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