Suonatori da quattro soldi

Una storia on the road di Fabio Miani

Caldo venerdì di settembre. Partii in anticipo per evitare il traffico della Milano del nuovo millennio. Basso e amplificatore nei sedili posteriori della mia macchina arancione.
C'era poco da stare allegri. La serata, una marchetta in trio, era organizzata da Frank un tipo sui quarant'anni o giù di lì.
Suonava da una vita, almeno così diceva, si riteneva un musicista di alto livello. Si era messo in testa di passare alla musica dal vivo, dopo anni di pianobar con le basi musicali.
In quel periodo iniziò a proporsi in trio, lui come voce e chitarra, ingaggiando bassista e batterista. Tutti quelli che avevano la sventura di suonarci, posto che non fossero più scarsi di lui, scappavano dopo al massimo due o tre serate.
Ero arrivato a Milano da pochi mesi, avevo dovuto ricominciare tutto da capo. Per il momento non avevo altro.
Il locale era un posto di pazzi detto "il bar degli artisti". Il “bar degli artisti” avrebbe voluto rievocare certe atmosfere parigine, ma non ci andava vicino nemmeno quando ci suonavano il jazz.


Il padrone di quel posto ed il relativo personale che ci lavorava in nero, erano una combricola di svitati e a lungo andare anche i frequentatori avevano preso una piega simile. Ostentati atteggiamenti eccentrici e sofisticati, tanti discorsi nel nulla, falsi alternativi. Finti artisti. Veri disperati.
Mangiai la foglia abbastanza presto.
Trovai un parcheggio e scaricai l'amplificatore, mancava poco al tramonto.
S’iniziava a suonare in orario aperitivo, un'oretta di musica abbastanza tranquilla poi si riprendeva in seconda serata e si tirava fino a notte fonda. C’era da farsi il culo.
La pedana stava alla sinistra dell’ingresso ed era strettissima, una volta sistemati gli strumenti non ci si poteva quasi muovere, a volte ero costretto ad appoggiare un piede su qualche sedia per non fare il volo. Con la luce di quel momento il locale sembrava ancora più squallido e povero.
Mi venne incontro Gaby la cameriera sudamericana, che all'inizio era simpatica ma col tempo andò tirandosela sempre di più, parlava troppo. Troppe donne lì dentro parlavano troppo. All’epoca comunque era stata assunta da poco. Frank arrivò con Flavio il batterista. Flavio non era male. Dopo un po’ iniziammo a suonare.
Si partì noncemale, Frank sembrava quasi rasentare la sufficienza, il suono della voce era ascoltabile. Il localaccio faceva angolo e dava direttamente sulla strada, potevo vedere cosa succedeva fuori. Niente per ora.
L'ora di repertorio soft era quasi passata, e anch’io avevo cantato qualche canzone, per il resto facevo i cori. In strada vidi una tipa nera. Alta con dei bellissimi boccoli colore del palissandro, che le scendevano armoniosi sulle spalle ben fatte, occhi grandi e scuri labbra carnose, ma non esagerate: carnose giuste. Tumide. Aveva un vestito bianco, una di quelle tute scollate e aderenti fino al ginocchio, che poi si allargavano a zampa di elefante, scendendo su due caviglie fini e ben incorniciate dagli spaghi di un paio di sandalini scoperti e a tacco alto. Spiazzante.
Guardava verso di noi. C'erano due tipi grossi con lei che sembrava ignorarli.
Stavamo suonando “Purple Rain”.
Entrò nel locale mi guardò. Ero vestito vergognosamente: jeans vecchi e strappati e canottiera a costine. Quando toccai l'ultima nota della canzone le sorrisi. Ricambiò il mio sorriso scoprendo una fila di denti bianchissimi, perfetti. Così da vicino il colore della sua pelle era bellissimo intenso come quello degli occhi. Rimase finché finimmo l'ora soft. Appoggiai il basso e andai a conoscerla.
Mi disse che era americana e che recitava nei telefilm. I due armadi erano le sue guardie del corpo. Mi disse complimenti suoni bene e canti ancora meglio e io le dissi complimenti ti vesti proprio bene. Si chiamava Valery. Chiacchierai per un po’ con questa fica monumentale. Poi se ne andò. Impegni di lavoro, disse.
Il sole ormai era tramontato, ordinai un drink al banco e qualcosa da mangiare a Gaby la cameriera stupida. Mi misi seduto pensando che era iniziata bene e che allora avrebbe potuto finire altrettanto bene. Povero illuso.
Verso le dieci riprendemmo a suonare, allorché arrivò il Padrone. Era ubriaco storto. E fatto di nonsocosa. Il che andò a vantaggio di Frank, che ne approfittò per alzare il volume sul palco. Il microfono mandava fischiate assordanti, e lui continuava a girarsi per ritoccare le impostazioni sul mixer, il più delle volte mollando la mano dalla chitarra, sbagliando. Bingo!
Al momento dei medley rock, Frank preferì far cantare me, per riprendere fiato alla voce. Anche il giovane banconiere comiciava ad andare su di giri. Aveva una specie di fissa per le fattone, e continuava tutta la sera a gridare a squarciagola: "viva la gnollaaaaa!". Viva la gnolla era il suo motto. Il motto del giovane banconiere. Prese una bomboletta spray di vernice blu e lo scrisse a grandi lettere sul muro del locale. “W LA GNOLLA” ora prevaleva incontrastato su tutte le altre scritte sul muro del bar degli artisti. Il Giovane Banconiere riusciva ad infilare la lingua in bocca a tutte. Davvero, non so come cazzo facesse. Chissà di che cosa si erano fatte quelle che ci stavano con lui.
Di lì a poco si sarebbe licenziato, e lo avrei rincontrato per caso in un altro angolo della città, sposato con una tipa che aveva conosciuto tre giorni prima.
Intanto continuavo tranquillo a distruggere la mia voce sulle note dei Led Zeppelin. Mi accorsi di questa tipetta bruttina biondo scuro: guardava Frank da uno dei minuscoli tavoli rotondi. Era in compagnia di una specie di rapper coi jeans dal cavallo basso e il berrettino girato all'indietro. Doveva essere il suo tipo. C’era anche un altro ragazzo, grassoccio vestito tutto di nero. Finito di cantare che baby oh sì ti darò un pieno d'amore, e ormai in procinto di sputare le corde vocali, chiesi una pausa. Era passata mezzanotte, e mi scolai una birra fresca, annacquata e schifosa.
Ci sedemmo e la bruttina si avvicinò coprendoci di lodi e complimenti. Poi disse a Frank ma lo sai che hai dei bellissimi occhi azzurri, ma come siete bravi, ma che voce che hai, ma che occhi stupendi. Continuava a ripeterglielo. Ci alzammo per tornare in pista per il rush finale. Forse quella è scema pensai, più probabilmente è sbronza. Cioè… davvero non la smetteva più. Noi dovevamo suonare e questa non ci mollava. Frank però le dava corda. Forse se la voleva sbattere, o chessò. Confesso che ero ormai sul di omaggiarla con una testata sulle gengive, ma mi precedette il rapper coi jeans dal cavallo basso e il berrettino all'indietro. Giunse con aria furiosa, passò dietro a Bruttina Biondoscuro le cacciò uno spintone terribile. Lei perse l'equilibrio ruzzolando in avanti, ma riuscii ad afferrarla prima che si spaccasse la testa sullo spigolo del soppalco. Era arrossita di vergogna e gli occhi le si erano inumiditi. C'era mancato un soffio: davvero si sarebbe rotta i denti. La voce di Bruttina Biondoscuro scaturì in una sequenza di urla isteriche verso Rapper Cavallobasso, figlio di puttana, non ti voglio più vedere, sei una merda, e robe così. Il loro amico grassoccio vestito di nero osservava il tutto dal tavolino rotondo, fingendo indifferenza. Mi girai e andai al cesso.
Al ritorno Flavio stava già seduto alla batteria e allora forza, mi dissi, che siamo alle ultime.
Dalla pedana osservai lo strano terzetto, e pensai che anche noi eravamo in tre là sopra e che magari tutta quella marmaglia poteva pensare di noi molto peggio di quello che pensavamo noi di loro. Eravamo tutti nella stessa merda.
Fuori sul marciapiede a non più di tre metri da noi, c'erano delle moto parcheggiate. La prima, subito dietro la vetrata che fiancheggiava il soppalco, era un chopper nero. Le note del basso correvano fluide. Vidi Rapper Cavallobasso alterarsi di nuovo, stavolta anche Nero Grassoccio si agitava, mentre Bruttina Biondoscuro continuava inesorabile a starnazzare. Il suono da schifo che avevamo lì sopra, almeno faceva confluire ogni voce del bar in un unico brusio di sottofondo, come nei vecchi dischi in vinile.
Rapper Cavallobasso uscì dal locale, vuotò il suo bicchiere sopra il serbatoio del chopper, estrasse l’accendino e dette fuoco.
Ci fu una fiammata altissima, con un rumore tipo quando soffi sul microfono acceso, e per un attimo ebbi la sensazione di sentirne anche il calore. Pensai che il serbatoio della moto poteva esplodere da un momento all'altro.
Non esplose.
Cavallobasso stava inforcando il suo scooter per andarsene. Ma come già si intuiva non era la sua serata: una volante della polizia aveva visto la scena. Il poliziotto scese dalla volante bianca e blu e arrestò Cavallobasso. Lui non fece resistenza. Nel locale naturalmente avevamo posato gli strumenti. Il mio basso era già al sicuro lontano dalla vetrata. Potevo sopportare qualunque cosa, tranne di veder bruciare il mio basso. Banconiere Vivalagnolla aveva prontamente riparato con musica in diffusione. C'era una certa agitazione. Il Padrone se l'era svignata. Poco dopo si dileguò pure Vivalagnolla. Bruttina Biondoscuro invece si precipitò fuori indemoniata scagliandosi violentemente contro ad uno dei poliziotti. Checazzofatebastardi, lasciate stare il mio uomo PERCHE’ IO LO AMO E CI VIVO ASSIEME. Soffocai a fatica una risata, giusto per non piangere. Ordinai un'altra birra schifosa e annacquata, uscii e mi appoggiai al muro sulla strada ad osservare il chopper che bruciava. Le fiamme avevano attaccato anche sulla moto a fianco, la plastica della carrozzeria dal lato sinistro colava e sfrigolava, mentre Bruttina Biondoscuro aggiungeva qualche calcio ai suoi francesismi colloquiali. Scattarono le manette anche per lei, che dette il meglio di sé: potete anche perquisirmi bastardi, perquisitemi il buco del culo, forza PERQUISITEMI IL BUCO DEL CULO!!
Giunsero i pompieri che chiusero la strada col nastro bianco e rosso e spensero le fiamme. L'altra moto era un bolide da strada e apparteneva all'unico tipo sano di tutta la faccenda, arrivato lì per caso con la sua ragazza, per farsi una di quelle schifose birre. Bontà sua.
Rientrai presi l’amplificatore e lo sistemai nella mia già scassata auto arancione.
Tornai nel locale, per farmi pagare. Un amico del Padrone, che si autodefiniva un grande pittore contemporaneo, si stava azzuffando con un altro cliente. Il cliente gli spaccò il bicchiere in faccia. Passai da un lato della rissa chiamai Frank che sganciò il grano. Ero in ballo dal tardo pomeriggio a notte fonda, e in mano non avevo nemmeno un pieno di benzina.
Con il mio basso in una mano e la miseria nell'altra, me ne andai.
Per quella sera avevo visto abbastanza.

 

 

 

 

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